Le parole che ci incastrano. Storia del debole e della permalosa

Le parole codificano la nostra vita. Dentro di noi, e fuori di noi. Producono effetti sulla nostra vita, su di noi e sugli altri. Sempre. Poiché questo è un dato inconfutabile, come il fatto che non si possa non comunicare, essere pienamente padroni della nostra comunicazione, dei suoi più sottili significati e delle sue più potenti influenze, dovrebbe essere un obiettivo primario per ciascuno di noi. Almeno, per me lo è, e lo è anche nel mio lavoro, insegnare a “comunicare per essere”.
Nella puntata precedente abbiamo parlato del potere delle parole e dell’importanza di scegliere di usare parole che costruiscono valore. Di come le parole che feriscono allontanino e le parole che sostengono creano ponti e legami.
In questa puntata, parliamo delle parole che ci incastrano. In senso letterale, ovvero, che ci fanno rimanere “incastrati” dentro spazi (visioni, dimensioni, idee, comportamenti) che non siamo noi.
(Scorrendo puoi leggere la trascrizione dell’audio)

Le parole che ci incastrano. Storia del debole e della permalosa

Le parole che ci incastrano, spesso, non sono nemmeno nostre. Vengono da qualche parte della nostra vita, spesso da parte di persone che sono, o sono state, importanti. In senso positivo o anche negativo. Fatto sta che lasciano il segno, ci condizionano, a volte ci influenzano, molte volte ci incastrano. Riducono una parte di noi a qualcosa che non è la giusta e massima espressione. Se ce ne accorgiamo, si può riuscire a liberarsene. Ma non è così semplice.
Soprattutto, perché sovente non ce ne accorgiamo proprio. Anzi, finiamo per identificarci con queste parole che ci limitano. E così diventano nostre. Ci influenzano, dentro di noi e fuori di noi. Verba manent, non “volant” proprio per niente. La capacità di penetrazione di una parola nel nostro mondo emozionale, nella nostra visione interiore, nella nostra vita, non ha limiti. Scompare il suono, ma non il segno.

La storia del debole, che debole non era

Vi racconto due storie. La prima è quella di Fabio. Fabio era un uomo di circa quarant’anni che affrontava un momento di crisi professionale. Un lavoro finiva, un altro avrebbe dovuto iniziare. Cosa fare? La scelta di richiedere un profilo grafologico era nata, all’inizio, soprattutto per curiosità. Ma tante e tali furono le “scoperte”, come le conferme, che Fabio decise di proseguire con il life coaching, determinato, prima di tutto, a stare bene con se stesso, ad investire sulla sua crescita personale, di cui la crescita professionale non sarebbe stato altro che un inevitabile e positivo effetto onda.
Lavora, lavora, tra un esercizio grafologico ed uno di scrittura evolutiva, venne fuori che Fabio era un debole. Tra le parole che lo identificavano, c’era la parola “debole”. Questa debolezza aveva creato un sacco di problemi, negli anni. A volte, pensando di essere debole, in situazioni professionali importanti non aveva agito e reagito come gli sarebbe servito, per i suoi obiettivi. Altre volte, pensando di essere debole, nelle situazioni affettive, aveva reagito molto e a sproposito, come per contrasto.
Indovinate… la parola era sbagliata. La parola giusta era “sensibile”. Non debole. La debolezza era il modo in cui persone a lui vicine, nel suo caso, la figura materna, avevano etichettato la sua sensibilità, perché non riuscivano a comprenderla. E come tutte le forme di sensibilità non compresa – e non manifestata nel modo giusto, giusta consapevolezza, giusta comunicazione, giuste parole – aveva finito per essere confusa, anche da lui, con “debolezza”.
La differenza è abissale. Dire: “Sul lavoro ho deciso di cambiare settore perché il modo in cui trattano i clienti non è in linea con i miei valori” è ben diverso dal dire: “Sul lavoro ho deciso di cambiare settore perché son uno debole, non riesco a pensare al mio massimo interesse come dovrei fare, non valgo”.
Non trovate che sia una differenza molto grande?
Nel primo caso, è un valore, nel secondo, un disvalore. Nel primo caso, la scelta di un settore nuovo sarà basata sulle nostre caratteristiche, e sceglieremo un settore in cui utilizzarle al massimo. Nel secondo caso, le nostre caratteristiche – che, eppure, sono le stesse – quasi sembrano un limite, un ostacolo da superare. Lo stesso, nelle relazioni di coppia. Urlare contro la propria compagna di vita perché ci pare che non comprenda il livello di stress che affrontiamo, vivendo una situazione professionale in cui ci riconosciamo, difficilmente contribuisce a farci sentire più compresi. Anzi, direi proprio per niente. Debole? Sensibile. La nostra sensibilità dobbiamo comprenderla noi per primi. Così, invece di urlarla, possiamo spiegarla. Perciò, cari amici, fate grande attenzione alle parole con le quali vi pensate.

La storia della permalosa, ovvero, chi non ci comprende, ci etichetta

La seconda storia è quella di Clara. Clara è una donna di trent’anni dei nostri tempi. Viva, briosa, piena di fascino e umanità. In gamba. Laureata, ha già trovato un lavoro a tempo indeterminato. Però, anche lei ha la sua parola “incastrante”. Che, se separassimo le due parti “in” e “castrante”, avremmo sempre un significato giusto: una parola che elimina una parte di noi. La sua parola limitante è: “permalosa”. E’ permalosa, così diceva il padre. E glielo diceva sin da piccola. Poi anche la madre, poi, un po’ tutti, gli insegnanti, gli amici. Lei stessa. Quando ci siamo incontrate era convinta di essere permalosa, che fosse un suo limite.
Certo, questo che vi racconto è solo una parte piccolissima, estrapolata per poterla condividere con voi, del lavoro che abbiamo fatto assieme. Il lavoro che ha fatto Clara mirava a farle vivere tutte le sue relazioni con più serenità e determinazione. Cosa in cui è riuscita benissimo.
Ma torniamo alla sua parola ingiusta, “permalosa”. Il padre era un tipo di quelli che pensano di avere sempre ragione, capace di alzare la voce per un nonnulla. E anche di alzare le mani, un bel ceffone educativo davanti ai parenti ogni tanto ci stava bene, fino oltre l’adolescenza. Anche dopo, qualche bella sfuriata qua e là non mancava, possibilmente, anche in pubblico. Clara aveva sempre sofferto di questo approccio comunicativo del padre. Ma, chissà perché – questo inciso sarebbe ironico, in quanto il perché è assolutamente comprensibile – non riusciva a spiegargli quanto soffriva, quanto fosse dispiaciuta, quanto lo sentisse distante. Allora la voce le si spezzava in gola, le veniva da piangere. Così è diventata, ai suoi occhi, “permalosa”. E ogni volta che si sentiva dal suo tono di voce che stava per piangere, ecco lì la parola incastrante: “permalosa”.
Ora, se ci pensate bene, è davvero così strano soffrire perché nostro padre invece di parlare con noi, di dialogare, urla? E’ così strano, a scuola, sentirsi feriti se ci prendono in giro perché portiamo gli occhiali, o non siamo super cool? E’ così strano essere profondamente dispiaciuti dal tradimento di un’amica? E’ una cosa da “permalosi”? Può capitare di essere permalosi, ma “permaloso”, come “debole”, è un giudizio, un’etichetta, che valuta sentimenti ed emozioni altrui, che nascono dalla sensibilità personale, come un difetto, come se fossero negativi.

Liberatevi dalle parole che vi imprigionano

La parola “difetto” non mi piace. Preferisco, “caratteristica”. La sensibilità è una caratteristica, temperamentale e intellettiva, se siamo particolarmente sensibili, ci lavoreremo su, per imparare a gestire meglio ciò che proviamo.
Se non siamo abbastanza sensibili, ci lavoreremo su, per imparare a capire perché, e come fare per comprendere meglio gli altri.
Non credete alle parole che vi incastrano. Cercate il loro significato vero. Cambiate parola. Vi dicono che siete testardi? Può darsi. In una certa situazione, magari, sarete testardi. Ma in un’altra la parola giusta potrebbe essere determinati, perseveranti, coraggiosi, convinti. Tutto cambia, basta una parola.
Perciò, impariamo a pensarci (a pensare a noi stessi) con le parole giuste. Quelle che davvero ci rappresentano. Cercate le vostre.
Vi saluto, mentre spero che le stiate già cercando.
E se volete una mano per scoprire le vostre, contattatemi, possiamo farlo insieme.
Aforisma della puntata
>>“Il rispetto è l’apprezzamento della diversità dell’altra persona, dei modi in cui lui o lei sono unici”, Annie Gottlieb

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